L’Africa che ci mancava – viaggio in Uganda

L’AFRICA CHE CI MANCAVA

La moglie dell’ambasciatore ci accolse con un grande sorriso. Faceva gli onori di casa mentre il marito introduceva gli ospiti nel giardino della grande villa sulla collina di Kampala sede di rappresentanza dell’ Ambasciata italiana. 1 primi ad arrivare sono gli italiani presenti nella capitale dell’Uganda poi tutti gli altri invitati, anche di colore, per la festa in onore del gruppo folklorico “l Nebrodi”.

Il palco per lo spettacolo era stato allestito proprio sotto la casa che odorava di fiori; erano venuti gli operai dell’impresa Impregilo da Jinja e avevano approntato una base di legno lucidata.

Toccò anche a me intrattenere gli ospiti e scambiare quattro chiacchiere in italiano, la prima volta dopo tanti giorni. Solitamente facevamo spettacoli per soli neri e ultra neri come quelli del nord.

Camerieri con guanti bianchi offrivano bocconcini di parmigiano e grissini con prosciutto crudo infilzato mentre nei punti strategici del parco e accanto alla piscina c’erano le “buvette”, delle piccole isole affollate di gente. L’ultima sera a Kampala prometteva bene; non ci si preoccupava più per le zanzare che erano state il nostro cruccio per tutta la durata del viaggio pronti, com’eravamo, a spalmarci di unguenti protettivi. La serata meritava e dovevamo godercela in pieno.

Nell’immaginario collettivo il viaggio in Uganda, in questa lontana terra nel centro dell’Africa, era iniziato almeno quindici giorni prima con il vaccino contro la febbre gialla (non era obbligatorio ma per sicurezza l’abbiamo fatto).

Il prete cattolico ugandese ospite della parrocchia di Capo d’Orlando ci aveva dato dei buoni consigli: “Portare la torcia elettrica perché spesso di notte manca la luce, vestirsi di chiaro per non attirare le zanzare, il voltaggio della corrente è simile al nostro anche se ci sono alti e bassi di tensione, conviene stare accorti. Le pillole contro la malaria sono consigliate. Niente pantaloncini, ne sandali; consigliate camice con maniche lunghe, scarpe da tennis e calzette”. Le zanzare erano pronte a pungere e ci aspettavano.

Sorrideva il prete nero mostrando la dentatura bianca e ci congedò salutandoci cordialmente.

Inizia così il viaggio di “piacere” del gruppo “I Nebrodi”. Un viaggio affascinate in una terra lontana.

Si parte in pullman per l’aeroporto di Fiumicino. Sull’autobus l’allegra compagnia è composta da venti sei passeggeri più due autisti della ditta Bevacqua. Si parte in piena forma o qua- si.La mia partenza era stata in forse perché ero febbricitante: avevo preso l’antibiotico che mi era stato prescritto dal dottore Vita e aspettavo gli effetti. “Parti tranquillo” mi consigliò il dottore, “non sudare e quando giungerai a destinazione sarai completamente ristabilito”.

Finché c’è “Vita” c’è speranza.

Il Gruppo “I Nebrodi” ancora una volta in tourneé con tanti bagagli, questa volta più pesanti: ci sono i regali per i bambini dell’Uganda già ospiti a Ficarra.

A Roma si giunge in tempo utile per fare le cose con comodo; è ancora notte.

Si parte: destinazione Bruxelles. Due ore di volo con la “Virginia” associata alla compagnia “Sabena”. Niente sosta all’arrivo e di corsa ci imbarchiamo su un aereo più grande. Otto ore di volo e giungeremo ad Entebbe di sera. Siamo tutti veterani di lunghi viaggi e, questa volta, anche “vaccinati”. Bello viaggiare! Ci si stacca dal quotidiano e si va incontro ad un mondo nuovo, sconosciuto e imprevedibile.

Compagna di viaggio Giulietta Milio, la “preside di ferro”. Eravamo stati assieme a Taiwan dove avevamo conosciuto i piccoli ugandesi. Sempre sveglia, la preside, e pronta alla battuta.

Fanno parte del gruppo anche Mimma ed Elina mogli rispettivamente di Nino e Filippo; gli altri ventitre, orchestrali e danzerini.

Il viaggio non è faticoso. L’arrivo a Entebbe un trionfo: la banda suona in nostro onore, i piccoli ugandesi con le mamme e gli amici gridano di gioia, una commozione generale, anche il rappresentante dell’Ambasciata d’ltalia a Kampala, si commuove.

Sono attimi indescrivibili. Questi avvenimenti ripagano tutti i sacrifici, le fatiche e l’impegno organizzativo che il gruppo sostiene. Ci si scioglie e si diventa buoni, ridere e piangere allo stesso tempo, cose che accadono in un paese povero.

Superato “l’avvenimento” ci si organizza per andare alla residenza prestabilita che non è molto distante. Caricati bagagli e viveri si riparte in pullman.

Siamo ospiti presso le “Focolarine” di Chiara Lubich accanto la Nunziatura Apostolica. Tutt’attorno baracche di canne e fango.

Le focolarine ci accolsero offrendoci dolcini e succhi di frutta che era già notte fonda; a questo punto occorreva conquistarsi un letto.

Le donne nell’ala sinistra di una casa con la luce fioca, gli uomini a destra. Camerate con cinque letti e due stanze con due lettini. A me toccò dividere la stanza con Vito il fisarmonicista giramondo.

Che bello il letto! E quando si è stanchi tutto diventa comodo. Avevamo preso la pillola antimalarica ed io, in più, l’antibiotico.

Sveglia alle prime luci dell’alba, con il fuso orario un’ora avanti. Tutto era tranquillo, i ragazzi dormivano ancora: controllo i bagni e mi organizzo. Niente acqua calda, pazienza, ci si lava con quella a temperatura ambiente.

Per la pulizia dei denti ci avevano dato dei boccali di plastica con acqua bollita e quindi sterilizzata. Niente doccia per il momento, all’occorrenza un bidè con l’acqua minerale. Faccio un’ispezione nel corridoio e dalle camere con le porte aperte noto molti bagagli ancora non aperti, è la scorta dei viveri: scatolette di tonno e di carne, vasetti di nutella, pane di casa e biscottato, friselle, salame e salsiccia secca. Agostino Casella, su consiglio del padre, si era portato il contenitore della pianola pieno di vettovaglie, gli altri erano bene organizzati. Le camere e i bagni non avevano imposte, soltanto delle cerniere di vetro orientabili. Il clima è mite anche se è in anticipo la stagione delle piogge.

La prima sera passò tranquilla, Francesco, il guardiano buono, aveva sciolto i cani nella notte. Ci avevano consigliato di non uscire fino all’alba nemmeno per prendere una boccata d’aria, dalle finestre dei bagni si vedeva tutt’intorno verde, il posto era tranquillo e anche bello.

Di colpo si svegliarono tutti, l’ora della colazione era stata fissata alle nove e trenta: thè ugandese, marmellata fatta in casa, pane morbido e banane di quelle piccole tanto buone. Il primo giorno ci sarebbe stata l’apertura del Festival: chi si organizzava a stirare i costumi, chi a preparare il caffè espresso utilizzando il ferro da stiro. Il gruppo era in forma, qualcuno tossiva nel corridoio, forse colpa della doccia fredda.

Le focolarine raccomandano di non sprecare il mangiare, la rimanenza sarà distribuita a chi ne ha più bisogno.

Per prima cosa si prende contatto con il teatro, il palco è piccolo e molto vicino alle poltrone, mi metto sott’occhio la fila da dove poter fare le foto.

Di telefoni per le chiamate internazionali non se ne vedevano in giro e diventava un problema per tutti, i cellulari non funzionavano. Il funzionario dell’ Ambasciata ci tranquillizzò, bisognava comprare le tessere telefoniche e prima o poi il telefono giusto si sarebbe trovato, bastava cercarlo.

Fatto il cambio di valuta ci colpì il colore dei soldi ugandesi sporchi di fango. La povera gente del luogo tiene la carta moneta stretta fra le mani impolverate e il colore iniziale cambia con il tempo.

Bella la zona italiana: il bar, la pizzeria, il ristorante. Provammo una bibita locale, “il succo del frutto della passione”, buona e dissetante.

Il debutto al teatro con la sala piena di gente di colore e anche bianca, iniziava per noi il festival del folclore; i ragazzi erano caricati, e Aurelio più di tutti. Lo spettacolo ebbe successo e l’ambasciatore d’ltalia si complimentò calorosamente annunciando che ci avrebbe accompagnato nel giro attraverso l’Uganda.

Prima tappa Jinja a due ore di pullman da Kampala. L’Agip aveva messo a nostra disposizione un’autobus Toyota e l’ambasciata il furgone con radio ricetrasmittente per trasportare i bagagli e gli strumenti. Cominciava “l’avventura”, un nastro di asfalto tagliava in due la campagna tutta verde coltivata a caffè e girasole; ogni tanto si incontrava un paese: un gruppo di case allineate alla strada e intorno altre case povere fatte di canne e fango.

A Jinja l’impresa italiana Impregilo stava ultimando la costruzione di una grande diga e noi avremmo fatto spettacolo per le maestranze e la gente del luogo nella zona di lavoro. Per l’occasione era stato allestito un grande palco all’aperto.

Arrivammo nella tarda mattinata e ci fu offerto un “banchetto” nella mensa dell’azienda, un buon mangiare italiano preparato da cuochi neri, la frutta era spettacolare: l’ananas e le banane piccole e mature. L’ingegnere Tommaso Giambuzzi, responsabile dell’impresa, fece gli onori di casa e ci ospitò adeguatamente in un residence del villaggio. Un “albergo” a cinque stelle nella realtà locale con camerieri e frigoriferi pieni di vettovaglie.

Lo spettacolo era stato programmato prima del tramonto nella zona accanto la diga. Una grande gru con una piattaforma era in posizione strategica per fotografare dall’alto l’esibizione. Ma come la mettiamo con le vertigini? Ero tentato di approfittare dell’occasione che mi si offriva, mi prendo di coraggio e salgo. Dall’alto è un bel vedere, la gente arrivava e affollava la zona, le ragazze del gruppo in costume offrivano caramelle agli indigeni. S’inizia fra gli applausi che scandi- scono il tempo della musica. Niente vertigini avevo superato me stesso, il viaggio in aereo ad alta quota aveva scosso la mia angoscia abituale ed ero diventato normale.

Dopo lo spettacolo ci portarono al circolo dell’impresa e conoscemmo tanti italiani. Conoscemmo meglio la moglie dell’ambasciatore che programmò la cena all’Ambasciata italiana al nostro ritorno a Kampala prima di proseguire il giro verso il nord dell’Uganda.

A Jinja restammo il giorno dopo per conoscere la zona. Ci accompagnò una signora simpatica moglie di un ingegnere dell’impresa. Le cascate ci apparvero dall’alto:la terra rossa e il verde della vegetazione facevano da contrasto con il bianco del fiume che scendeva a valle. Il posto era bello, da meditazione, ci siamo riposati e rilassati, la febbre non c’era più, giocoforza bisognava ritornare in forma, il posto meritava. Tante fotografie e tutte belle. L’Uganda ti fa sentire male: al bello si contrappone una povertà che si nota a prima vista, un essere lontano nel tempo. La gente del luogo vive di niente, non conosce altro. Si ha voglia di fare qualcosa, ma che cosa? Ci si sente impotenti. L’ingegnere Vincenzo Sestan, dell’lmpregillo, ha creato a Novara un’organizzazione per aiutare i più bisognosi. Ha coinvolto Nino Indaimo che subito ha aderito con entusiasmo all’iniziativa.

L’ingegnere Giambuzzi prima della buona notte ci coinvolgeva in discussioni interessanti; molto preparato, sembrava un predicatore. Il tempo in Uganda non passa mai e oltre al lavoro non resta che la

lettura. Suonò anche la chitarra e la musica ci conciliò il sonno. Eravamo stanchi, di giorno eravamo andati in barca navigando il Nilo dove nasce e comincia a scendere lentamente.

Si ritorna a Kampala e a venti chilometri di distanza da Entebbe visitiamo lo zoo: qualche animale feroce ma non troppo; chiusi in grandi spazi recintati non facevano paura anzi sembravano docili: coccodrilli, leoni, scimmie. Ma più di tutto ci incuriosì una pentola solare, un grande specchio concavo con al centro la pentola con coperchio pronta a bollire, una curiosità da fotografare.

Sulle colline di Kampala visitammo la tomba del Re, tutti senza scarpe e le donne hanno indossato un parejo. La guida ci fece sedere a terra e spiegò in inglese tutta una tiritera che in pochi hanno capito, ma non importa, il posto era interessante ed era l’unica grande costruzione circolare in canne e giunco. Dentro le assistenti del Re creavano tappeti con la paglia colorata. Tappeti che gli indigeni utilizzano per dormirci sopra nelle loro piccole case.

La religione cattolica è molto seguita in Uganda e ci portarono a visitare la chiesa dei martiri, nella stessa chiesa si era recato il papa durante uno dei primi viaggi del suo pontificato.

Tu regali una caramella ad una bambina e, prima di accettarla, si inginocchia per ringraziare. Fanno una tenerezza che ti colpisce, ti tocca. Com’è lontana la civiltà dei consumi!

La banda suonò ancora in nostro onore per accoglierci alla scuola Saint Piter; centinaia di bambini in divisa con il maglione verde face- vano ala, lungo il percorso, al nostro passaggio a piedi. Visitammo le varie aule e ci fu presentato il corpo docente. Gli alunni in festa hanno potuto conoscere gli amici dei piccoli ugandesi ospiti di Ficarra. Una mattinata da ricordare. Visitammo anche la cucina dove con il fuoco a legna cucinavano un fumante minestrone e una impastatrice preparava la pasta per il pane da infornare. Una parte degli alunni venivano ospitati anche la notte. Le costruzioni in muratura avevano accanto un grande recipiente di metallo per il recupero dell’acqua piovana. Dopo un drink di bevande analcoliche fummo accompagnati presso un artigiano che lavorava il legno. A tutti piacquero le sedie ad incastro molto appariscenti e tanto pesanti. Nino aveva raccomandato di non strafare negli acquisti per non eccedere con il peso dei bagagli da trasportare in aereo. Consiglio non ascoltato e tutti comprarono a dismisura.

La sera attenti alle zanzare: maniche lunghe, scarpe chiuse. Una pizza o una birra, si poteva correre il rischio e stare all’aperto nella zona dei locali italiani. Il “succo della passione” era la bevanda più richiesta.

Dalla valigia tirammo fuori il vestito buono, quello della festa, come si usava dire una volta. Alla cena nella residenza dell’Ambasciata d’ltalia ci andammo tutti “allicchittati”. AI buffet stavano per essere serviti quattro varietà di primi, due secondi e contorni vari. In cucina tre cuochi erano intenti a scolare la pasta e sui vari fornelli si riscaldavano i condimenti.

L’ambasciatore chiamava “Tano” ed io mi giravo assieme alla moglie che, guarda caso, nell’intimità veniva chiamata così invece di Loredana. Un motivo in più per riderci sopra; una serata spensierata in terrazza in buona compagnia.

Per dessert crepes e cioccolattini Godiva, la mia passione. Alla cena parteciparono gli sponsor del nostro viaggio e si fece amicizia con tutti nel grande giardino illuminato. Si fece tardi e l’indomani dovevamo partire per un lungo viaggio verso il nord con il pullman messo a disposizione dall’Agip che in Uganda è molto conosciuta.

“Musungo”, uomo bianco: eravamo venti sei “musunghi” e tanti non si erano mai visti tutti in una volta e per i negri di Gulu era una novità. Sì, c’erano medici bianchi all’ospedale e qualche volontario oltre i missionari, ma noi eravamo l’attrattiva principale.

Arrivammo a Gulu dopo quattro ore di viaggio. La strada era buona e anche asfaltata, un lungo rettilineo in mezzo al verde, ogni tanto un centro abitato e qualcuno pronto a vendere la più svariata mercanzia, roba da mangiare, frutta, oggetti in legno scolpiti. Seguivamo il tragitto su una cartina stradale che Filippo Cappotto aveva diligentemente acquistato prima di partire. Il pullman andava di gran lena superando il limite di velocità, un monotono segnale acustico ci accompagnò per tutto il viaggio; fu consumato un pieno di gasolio e arrivammo sani e salvi.

Un missionario ci accolse bonariamente al villaggio Magenta e lì fummo ospitati in quindici, gli altri furono sistemati nell’ospedale e in un albergo.

Lo spettacolo era stato programmato nel primo pomeriggio in un grande spiazzo all’aperto sotto gli alberi. Tutt’attorno una moltitudine di gente: centinaia di bambini seduti a terra segnavano il confine della zona riservata al ballo. Sembrava una giornata tranquilla, ma invece poteva succedere di tutto, tanta era la ressa delle persone che volevano vedere da vicino l’esibizione. Così per ordine pubblico ci fu una sospensione e ci trasferimmo in un locale recintato sempre all’aperto. Migliaia di persone assistettero ugualmente all’avvenimento e fu un grande successo.

Il villaggio Magenta era stato costruito per assistere i più bisognosi e dall’ltalia arrivavano periodicamente gli aiuti e la manodopera per costruire scuole e case.

Nell’edificio principale, oltre la sala da pranzo, c’erano le camere con letti singoli. A me toccò una cameretta con sopra il letto un appendiabiti di metallo. Ideale per sistemare la zanzariera che mi ero portato appresso dall’ltalia. Tre metri di velo da sposa da servire alla bisogna.

Mangiammo bene e a quelli ospiti dell’ospedale fu servito un cibo più ricercato, le monache avevano preparato un menù speciale per i ragazzi del gruppo. La serata continuò con musica e canti che hanno coinvolto tutti, medici e infermieri. Il primario era il professor Corti, molto noto, per la sua opera, anche in Italia. (Molto presto verrà girato un film sulla sua vita con gli ammalati, tratto da un suo libro autobiografico edizione Paoline }.

La notte passò in fretta senza la preoccupazione di essere punto dalle zanzare. La mattina ci incontrammo tutti all’ospedale, il Prof. Corti ci fece visitare i vari reparti e poi partimmo per un’altra tappa, destinazione Lira.

A Lira arrivammo nella tarda mattinata, l’ambasciatore era rientrato a Kampala e ci lasciò in compagnia di un funzionario, Silvia, che aveva studiato in Italia. Lì trovammo una realtà diversa da quella di Gulu. La gente si dava da fare inventando mille mestieri: la “bicicletta taxi” era tutta agghindata e un cuscino colorato con pennacchi sul portabagagli posteriore serviva per il passeggero che pagava anche mille scellini per un lungo tragitto su strada in terra battuta.

Anche Silvia era imprenditrice e con le sorelle aveva un frantoio per la produzione di olio dai semi di arachide.

C’era una zona dove si industriavano a fare la birra: accanto alla propria piccola baracca mettevano spianato al sole il luppolo e l’orzo, poi lo facevano fermentare in recipienti di fortuna e quindi veniva travasato il tutto in bidoncini di plastica per farlo riposare; ma prima di consumare la birra veniva aggiunta acqua bollente forse per ammazzare i microbi. Con due lunghe cannucce veniva succhiata a turno. Dicevano che era buona, ma nessuno ha fatto il bis.

A Lira fummo ospiti del centro pastorale don Bosco, tutti in un edificio con camere singole, il mio letto era semovente, ma buono, i bagni con acqua calda; programmai una doccia prima di andare a letto. La giornata era stata faticosa. Tutto il pomeriggio al sole per lo spettacolo, una manifestazione interminabile ma piena di avvenimenti, tanta gente stava ordinata al proprio posto in uno spiazzo verde pieno di fiori accanto alla Chiesa dedicata alla Madonna. Tante mamme e tanti figli, una marea nera che faceva effetto. AI centro, sotto un tendone che riparava dal sole, l’orchestrina suonava e il suono veniva amplificato da un sgangherato altoparlante. I vari gruppi si esibivano a turno e in ultimo toccò a noi fra gli applausi generali, un avvenimento particolare, nessun bianco era presente tranne un prete, padre Russo di Acireale che si divertiva fotografando. La sera barbecue all’aperto. Le campane suonarono a festa la mattina presto, era domenica e venivano chiamati a raccolta i fedeli per la funzione religiosa, la chiesa era piena di negri, tutti cattolici grazie a Dio, mentre noi partivamo per fare ritorno a Kampala. Cinque ore di viaggio per giungere in tempo per la giornata conclusiva del Festival del Millennium in programma nel pomeriggio. Questa volta non all’aperto, ma in un gran- de hotel della capitale.

Quando iniziò il Festival ci fu la sfilata di trenta gruppi folKlorici dell’Uganda più tre gruppi stranieri, poi il ministro della cultura diede inizio ai giochi battendo un grande tamburo. AI momento dello scambio dei doni, Nino Indaimo, come capo gruppo de “I Nebrodi,” abbracciò il ministro, che era una donna corpulenta; l’avvenimento, inusuale, venne riportato con una fotografia a colori in prima pagina su un giornale Ugandese.

Nella grande sala convegni dell’hotel Nilo sfilarono tutti i gruppi facendo un’esibizione prima della premiazione. La giuria e le autorità erano intente a stilare una classifica di merito. Centinaia di danzerini e orchestrali venivano radunati al centro del salone. L’odore acre tipico della gente di colore si mescolava ad un altro odore forte che era quello dei costumi di pelle di animali conciata alla meglio. Tutti erano al centro gomito a gomito e il caldo accentuava la strana sensazione.

Tanti premiati, ma non tutti. I più meritevoli ricevevano il premio in plastica colorata: un secchio, una bacinella, una pattumiera. Anche al gruppo  “”I Nebrodi” venne assegnata una bagnarola che fu accettata con un sorriso. Bisogna fare questo genere di esperienze per poter apprezzare le cose semplici!

Un’altra serata da ricordare è stata quella della cena nel salone della scuola di Tony Mombasa. Un mangiare tipico Ugandese, tante cose buone offerte col cuore, una serata semplice all’insegna dell’amicizia fra gente diversa per tradizione e cultura.

Il soggiorno in Uganda si stava per concludere; qualcuno era febbricitante per la stanchezza e per il clima. Di notte pioveva quasi sempre, l’acqua calda non c’era, il virus colpiva a turno e nell’ultima serata all’Ambasciata italiana, dopo lo spettacolo, in cucina, venivano preparati dei recipienti di acqua calda con sale e alloro per un “parfume” salutare collettivo; mentre su un grande fornello venivano cucinati quattro chili di “vermicelli” Barilla. La salsa di pomodoro era un po’ lenta, ma condì egregiamente la pasta. Avevamo conquistato la bella casa dell’ambasciatore, potevamo essere soddisfatti.

L’ultima giornata la dedicammo alle visite. Fummo ricevuti dal Nunzio Apostolico Christophe Pierre all’ambasciata del Vaticano. I ragazzi erano in costume e accennarono alcuni passa di danza in onore di Sua Eccellenza che benedisse il gruppo.

Poi di corsa alla scuola italiana Ambrosoli per uno spettacolo per i bambini, si giocava in casa e tutto diventò più semplice.

Ultime ore nella capitale alla portata di un telefono internazionale, comprammo tante schede telefoniche che in parte furono utilizzate; i collegamenti con l’ltalia non erano facili.

Lasciammo la nostra residenza qualche ora prima della partenza dell’aereo.

Alle focolarine donammo tutti i viveri e le medicine che avevamo portato. Ai piccoli amici ugandesi l’affetto di tutto il gruppo; questa volta non più grida di gioia, ma un silenzioso commiato, un commovente saluto, un arrivederci a chissà quando!

Tano Cuva